Dead Dog Bay si racchiudeva stretta tra due colline
dal manto bruno, ricoperte da alberi che avevano vissuto guerre e tempeste,
sempre assistendo silenziosi e pazienti come anziani consiglieri che ormai non
debbono neanche più aprire bocca per esprimere giudizi.
La baia era gremita di sassi e scogli appuntiti, il
tutto ricoperto da conchiglie e alghe che il mare dimenticava ad ogni risacca.
La sabbia era ruvida, rossa, accesa come il sole del tramonto, pareva quasi
sentirla ardere sotto le suole nel pieno dell’estate.
La baia era piccola ma vivacemente frequentata,
tutti i marinai delle vicinanze erano costretti ad attraccare lì per
raggiungere l’entroterra, le altre insenature erano troppo increspate e decisamente
pericolose per tentare un coraggioso approdo.
Dalla baia partiva un agile sentiero costruito in
travi di legno che portava alla strada principale, dominata da alti alberi
dalle fronde oscure.
Alla baia era sempre possibile trovare tre cose: Il
vento dal gelido nord, il vecchio peschereccio abbandonato e il pianoforte del
pirata.
Il pirata arrivava, ordinava carne e patate, un
paio di birre e nero e scontroso come un temporale se ne andava a sedere al pianoforte
vicino alle scale. Le mani rovinate dal mare e dagli anni si rilassavano, il
collo si sgranchiva, così come spalle e polsi. Le dita rozze si appoggiavano ai
tasti e iniziava la magia.
La rabbia, le grida, i tesori da rubare e le spade
da sguainare tornavano a riposare nelle tasche, esisteva solo quel leggero
scorrere sui tasti bianchi e neri, provo di volontà sotto il tocco del pirata.
Più che suonare lui a quei tasti parlava. Raccontava del mare, delle onde che
ti trascinano via, delle stelle che brillano solo per indicarti una via che
forse ti condurrà ancora più lontano.
A quei tasti parlava della sua vita, di come fosse
tardi per cambiarla, di cosa si era lasciato indietro in quel tempo che
sembrava finito da secoli. Al pianoforte poteva dire tutto, lui sempre presente
ascoltava, regalandogli le sue pagine bianche e nere per poter scrivere
memorie.
Il pirata suonava e dopo il mare, i venti e i pesci
parlava di lei.
La musica si faceva leggera, timida, le dita del
pirata ricordavano come fosse toccare la sua pelle, tanto bianca e morbida come
la prima neve dell’inverno. Lui, così arcigno e severo, così rude e minaccioso,
si lasciava andare a racconti senza fine su l’unica donna che avesse mai amato.
Erano passati tanti anni, tante maree l’avevano
accompagnato in giro per il mondo, ma quel sorriso, quella ciocca di capelli
neri che indisciplinata scendeva sulle spalle, quella donna avrebbe continuato
a vivere nella sua musica, unico luogo degno per descriverne l’amore e la
bellezza.
L’aveva conosciuta in un bordello alla periferia
della città, una bettola frequentata solo da gente poco raccomandabile, gente
come lui. Pagando il giusto prezzo si poteva bere vino e toccare una donna dopo
lunghi mesi passati tra arrembaggi e misfatti al sapor di salsedine. Quel
giorno pioveva forte, le strade erano allagate e i ratti facevano a gara per
accaparrarsi un riparo tra le casse del porto appena scaricate.
Lui entrò alla svelta, non badando all’etichetta
-per altro neanche pretesa in un posto così- che prevedeva di togliersi gli
stivali infangati all’ingresso. Pagò la quota prevista a Madame, si arricciò
con aria soddisfatta i baffi e baldanzoso come un giullare si mise alla ricerca
della fortunata. Il salottino di pacchiano velluto era intriso di alcool e
risolini dal suono falso, dedito solo a fare soldi alla svelta. Camminava
tenendo le mani dietro la schiena, come un estimatore al mercato dell’arte.
Bionda, rossa, castana, bella, brutta, grassa. C’era di tutto, ogni voglia o
passione poteva venir soddisfatta tra tutti quei colori. Si stava convincendo
che non fosse quasi serata, la merce appariva stanca. Girò l’angolo per andare
a prendere un bicchiere di vino quando vide lei.
Più bella della luna, più candida delle stella, più
pericolosa di tutte le tempeste che avesse mai affrontato. Gli sorrise
offrendogli la mano. Lui la raggiunse togliendosi il cappello. Le fece un
inchino profondo. La amò tutta la notte.
Gli si addormentò abbracciata al petto e lui quasi
non osava sfiorarla tanto appariva fragile assopita nel sonno.
Il pirata si era innamorato.
Il sole però non rispetta né il buio né gli amanti
e così arrivò il mattino, che portò via lei e che rispedì lui tra le onde del
nulla.
Non la rivide mai più.
La rivide ogni notte nei suoi sogni.
Un giorno il pianoforte cessò di suonare.
Il pirata smise di recarsi alla locanda.
Gli ottimisti dissero che fosse tornato dal suo
grande amore, quelli aggrappati alla realtà più cruda, che fosse morto in mare,
forse in compagnia soltanto della sua spada e dei suoi ricordi.
Il pianoforte venne spostato sulla baia, così che
fosse più facile per il pirata tornare a suonare, visto che la locanda era
diventata prima un hotel e adesso una agenzia di assicurazioni.
La leggenda vuole che chiunque suoni a quel
pianoforte riesca a farsi sentire da un amore lontano, magari promettendo di
tornare, forse una notte, forse per sempre.
Nessuno sa se quei tasti nascondano qualche potere
o se sia solo fantasia, quello che tutti a Dead Dog Bay sanno, è che il
pianoforte del pirata resterà per sempre lì, rotto e scordato, pronto per
raccontare ancora una volta dei suoi riccioli neri.
Questo racconto mi è piaciuto moltissimo e mi ha fatto voglia di imparare a suonare il pianoforte (non diventare un pirata però!).
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