Quello che più le dispiaceva nel salutare l’autunno era l’arrivo
precipitoso della notte subito dopo le cinque di pomeriggio. Il sole timbrava
il cartellino in fretta e furia, neanche il tempo di scaldare con gli ultimi
raggi strade e passanti che subito l’ombra scendeva come un pesante scialle di
lana pungente. Il quartiere andava riempiendosi dei lavoratori che pigramente
rientravano dopo una giornata passata a battere sui tasti impersonali di una
tastiera, dentro un ufficio addobbato con foto di famigliari che non vengono
abbracciati spesso quanto dovrebbero.
Lei aveva staccato dal lavoro più tardi del solito, maledicendo gli
ultimi clienti difficili della libreria, sempre pronti a chiedere consiglio su
pubblicazioni vecchie di millenni o libri non ancora mandati in tipografia.
Aveva controllato svogliatamente la chiusura di cassa, il profitto
giornaliero, la quantità di ricevute adagiate sul fondo del cassetto. Aveva poi
chiuso le finestre, spento le luci, serrato a doppia mandata le pesanti porte
della piccola libreria di libri usati di cui era proprietaria.
I libri la salutavano cortesi, rilassandosi un poco, socchiudendo le pagine e appoggiandosi l’uno all'altro come tanti amici che affannati si sorreggono dopo un avvincente partita di pallone.
I libri la salutavano cortesi, rilassandosi un poco, socchiudendo le pagine e appoggiandosi l’uno all'altro come tanti amici che affannati si sorreggono dopo un avvincente partita di pallone.
Girava la chiave, aspettava lo scatto e il squillante avviso d’accensione
dell’allarme, poi via, dritta alla caffetteria che la scaldava con the bollente
e biscotti al burro quasi ogni giorno.
Attraversava la strada, leggera e ballerina sugli stivali senza tacco,
una figura esile dai lunghi capelli color grano che si aggirava tranquilla in
un mondo troppo veloce per apprezzarne l’aspetto. Fatata e dolce come un bacio ancora da ricevere.
Cominciava a piovere, l’acqua scrosciava davanti ai fanali delle auto
tramutandone la luce, creava pozzanghere nascoste agli sguardi distratti e
penetrava nelle ossa di chi aveva dimenticato a casa un degno impermeabile.
Il semaforo tratteneva i passi dei pedoni brillando nuovamente di
rosso, lei aveva ormai varcato la soglia del locale, riprendendo fiato dopo
aver approfittato dell’ultimo attimo disponibile per poter attraversare la
strada.
“Buonasera Sara, ti preparo subito il the. Com’è andata oggi?”
“Al solito. Tanti cretini e pochi lettori. Comincio a perdere fiducia
nelle persone…per fortuna i miei libri mi insegnano come continuare a sperare
nonostante tutto”
Era vero. Lavorare in una libreria significava per lo più veder svanire
la poesia di un racconto a favore di qualche titolo commerciale, consigliare
autori e racconti a chi voleva solo apparire intellettuale ai bordi del
bagnasciuga, pregare perché l’ennesima ragazzina si interessasse a qualcosa di
vero piuttosto che all’ennesima autobiografia di qualche pseudo-cantante dal
nome cretino almeno quanto i testi delle sue canzoni.
Lei amava i libri con tutta se stessa. Erano amici, confidenti, erano i
custodi di tutto il sapere che aveva messo piede nel mondo, testimoni di
emozioni e pensieri, erano un biglietto di sola andata per un’esperienza sempre
diversa.
Aveva deciso di aprire la libreria due anni prima.
Il locale che era riuscita ad aggiudicarsi ad un prezzo ragionevole era
stato una volta una vecchia sartoria, conservava ancora i mobili in legno e
antiche macchine da cucire di cui lei non si sarebbe mai sbarazzata. Erano
bellissimi ferma-libri che anche se non si adattavano all’ambiente di certo
stimolavano l’immaginazione.
Aveva passato più di un mese a sistemare il disordine che un’attività
fallita aveva lasciato, imbiancando i muri, restaurando gli infissi, appendendo
quadri e cornici che dessero nuova vita a quelle stanze.
Alla fine tutto appariva perfettamente imperfetto. Gli scaffali in
legno bitorzoluti come anziani stregoni nei libri fantastici per bambini, le
mattonelle in coccio calde come il reparto di poesia spagnola, le tende di
cotone che svolazzavano con il vento estivo come un lieto fine .
Si occupava di accogliere i
clienti una vecchia campanella sistemata proprio all’ingresso che al minimo
movimento della porta dedita al dovere tintinnava allegramente, annunciando a
tutto il locale l’imminente arrivo di qualcuno. Subito dopo ecco che si
inchinava rispettoso l’odore tipico dei vecchi libri di seconda mano, pungente
per chi frequenta ambienti di classe magari dal poco spessore, rigenerante e
confortevole per chi ama poesia e cultura.
I suoi libri, amici pazienti che la ascoltavano nei giorni bui, giocosi
pagliacci che strillavano filastrocche e canzonette, eroi senza pari che
combattevano con ardore il passare del tempo e l’avvento di nuove mode superficiali.
“Ecco il tuo the Sara”.
Diligente come sempre il proprietario della caffetteria aveva sistemato
sul piattino una zolletta di zucchero e la fettina di limone che presto avrebbe
provato l’ebrezza di un bagno caldo immergendosi nella tazza di Earl Grey. Il
vapore profumato saliva lento verso le sue narici mentre le mani stringevano
avide il calore della bevanda.
Un soffio. Un sorso. Un soffio. Un sorso.
Il gusto si adagiava sulla lingua, il corpo si rilassava, la mente si
fermava.
Le macchine continuavano a sfrecciare arroganti sulla strada, correndo
forse verso quella monotonia pesante socialmente accettata e una libreria piena
forse solo di polvere e cornici in argento.
Il the era finito. I biscotti al burro pure. La pioggia anche.
Era tempo di tornare a casa.
E magari iniziare a sfogliare un nuovo libro.
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