Un sabato mattina.
Il sole splendeva timido dietro i rami degli alberi
e la campagna si stiracchiava assonnata alle prime luci del giorno. Tutto era
avvolto da una pacata atmosfera primaverile, l’aria profumata e frizzante
toccava allegra ogni cosa, come un bambino dall’aria furba che scova i compagni
a nascondino.
Lui era il primo ad arrivare.
Come sempre.
Parcheggiava la vecchia automobile, apriva la porta
e spalancava le finestre.
Il primo ad
arrivare e l’ultimo ad andarsene.
Funzionava così quando eri il proprietario del più
importante ristorante della città.
Apri di qua e apri di là, cassetti che sbattevano
al ritmo della frenesia creativa e pentole e pentolini che roteavano da una
mano all’altra.
Sull’attenti! Si deve preparare il pranzo!
Raccolse con la mano destra un grosso pugno di
farina e lo lanciò senza riflettere troppo sull’ampio piano in marmo di cui la
cucina era dotata. La farina si alzò leggera in una grossa nube bianca. La luce
filtrava dalla finestra sottolineando il movimento del pulviscolo nell’aria,
una nebbia che da lì a poco si sarebbe posata, pronta a diventare una lunga
sfoglia gialla. Rotto un uovo se ne rompe un altro. E un altro ancora… E via ad
impastare, girare, stendere e tirare quell’ammasso grumoso dal colore
brillante! Le mani del cuoco passarono leste dall’impasto al tenace mattarello,
rigido ed efficace nel svolgere quel faticoso mestiere.
Il legno rotolava con rumore sordo sullo strato di
sfoglia, ad ogni sospiro di fatica ecco che la pasta si allungava, come un
gatto che sbadigliando distende man mano tutte le zampe.
La sfoglia era pronta.
Ruvida al tocco, levigata alla vista. Si stendeva
sul piano come un silenzioso e inerme campo di grano, il giallo del tuorlo e il
bianco della farina si stavano stringendo in un caldo e morbido abbraccio.
Il cuoco si asciugò la fronte, soddisfatto e
sorridente nell’accarezzare ancora una volta quel piccolo prodigio. Che piccole
magie accadevano ogni giorno dentro quelle mura, incantesimi dall’aspetto
invitante.
Ma ecco che ad un tratto…Oddio l’orologio! Ma è
tardissimo! Ci sono ancora tante cose da fare! Via di corsa a recuperare il
resto degli ingredienti nascosti dai pensili in legno. I mattoni a vista della
cucina trattenevano un sorriso, tutte le mattine la storia era la stessa.
Arrivava con calma, si godeva la prima creazione e poi via a correre come un
matto su è giù per tutta la cucina, bramoso di creare ancora una volta qualcosa
di nuovo e straordinario che sbalordisse i clienti.
Verdure colorate come un appetitoso arcobaleno vennero
gettate nel lavandino senza troppi complimenti. L’acqua scorreva sulle bucce
trascinando via zolle di terra e polvere bruna, mostrando infine la
brillantezza che la natura sapeva donare anche a quei semplici ortaggi. Lo
squillante arancione della carota venne messo vicino al verde elegante della
zucchina, e pare che la combinazione funzionasse, i due chiacchierarono per
tutta la durata della cottura dello sformato , obbligando il formaggio a fargli
un po’ di spazio e zittendo quell’arrogante della noce moscata che amava
interrompere qualsiasi conversazione per dire la sua.
Il cuoco continuava imperterrito a frullare come un
vecchio macinino in qua e in là per il locale, rammentando a sé stesso di fare
quello e quest’altro, sorridendo entusiasta a cotture ultimate e sufflè
dall’aspetto perfetto.
“Povero me! Povero me! Il semifreddo!” Oh santo
cielo il semifreddo all’amaretto! Era ancora nel congelatore! A grandi falcate
il cuoco raggiunse la pesante porta in acciaio aprendola in tutta fretta e…ed
eccolo lì, tremolante e col faccino triste, il dimenticato semifreddo
all’amaretto.
Lo tirò fuori con delicatezza e aria sofferente,
era davvero mortificato! Non è mai cosa gentile dimenticare un semifreddo nel
congelatore.
Lo fece scivolare dallo stampo al piatto da portata,
accompagnandolo con una lieve spinta di incitamento, un po’ come un padre
premuroso che insegna per la prima volta ad un bambino quella grande avventura
che porta il nome di “bicicletta senza rotelle”. Il semifreddo – ehi, voi
tutti, non vi azzardate a chiamarmi budino!- saltò senza problemi sulla
ceramica bianca che lo stava aspettando. Tremò un po’, si sistemò allegro e
soddisfatto e aspettò di essere abbellito come una vera e propria star.
Arrivò dapprima una collezione di piccoli biscotti
a cingergli la vita, poi la grattugiata di cioccolato amaro a solcargli il capo
ed infine, la parte migliore, una pioggia di granella di mandorle che gli
donava un’aria davvero elegante.
Il cuoco fissava l’orologio ogni cinque minuti.
Gli ospiti stavano per arrivare!
Insomma insomma, che bolliva in quella pentola?
Magari le patate? O no, le patate già erano divenute purè pronto ad unirsi
all’arrosto! E l’arrosto? Era pronto l’arrosto? Beh, di certo muoversi non si
muoveva…Ma che stiamo dicendo! Non si perda tempo! Ci sono ancora i cestini del
pane da riempire di focaccia fumante e grissini al rosmarino, la zuppa di
fagioli da servire nella scodella di ceramica, le marmellate da unire alla
selezione di formaggi!
Con due mani disponibili e cento occhi che
controllassero tempi di cottura e vapori sospetti, il cuoco si accingeva a
terminare quell’infinita e frenetica preparazione che ogni pasto imponeva.
I cibi aspettavano profumati nei grandi vassoi da
portata, spargendo nell’aria una firma odorosa che da anni e anni contrassegnava
gli ambienti del ristorante.
Il campanello della porta.
Una risata di un bambino.
I tacchi di una signora.
Il colpo di tosse di un gentiluomo.
Erano arrivati i clienti.
“Su vai vai!” dicevano pasta fresca e fette di
torta, era ora di cominciare lo spettacolo.
Lui si tolse il grembiule, si sistemò ancora il
cappello e spalancò le porte della cucina per dirigersi nell’androne
principale. Era un mezzodì di sabato e il sole splendeva.
“Potete accomodarvi. Benvenuti nel mio ristorante”
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