venerdì 28 giugno 2013

La mattina e il cuoco.

Un sabato mattina.
Il sole splendeva timido dietro i rami degli alberi e la campagna si stiracchiava assonnata alle prime luci del giorno. Tutto era avvolto da una pacata atmosfera primaverile, l’aria profumata e frizzante toccava allegra ogni cosa, come un bambino dall’aria furba che scova i compagni a nascondino.
Lui era il primo ad arrivare.
Come sempre.
Parcheggiava la vecchia automobile, apriva la porta e spalancava le finestre.
 Il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene.
Funzionava così quando eri il proprietario del più importante ristorante della città.
Smise gli abiti che portava e si infilò agile dentro la divisa. Bianca, lucente, perfetta ed elegante come una camicia di cotone pregiata stirata da mani esperte. Si  sistemò il cappello. Un po’ più giù. Un po’ più su. Perfetto, si era pronti a cominciare.
Apri di qua e apri di là, cassetti che sbattevano al ritmo della frenesia creativa e pentole e pentolini che roteavano da una mano all’altra.
Sull’attenti! Si deve preparare il pranzo!
Raccolse con la mano destra un grosso pugno di farina e lo lanciò senza riflettere troppo sull’ampio piano in marmo di cui la cucina era dotata. La farina si alzò leggera in una grossa nube bianca. La luce filtrava dalla finestra sottolineando il movimento del pulviscolo nell’aria, una nebbia che da lì a poco si sarebbe posata, pronta a diventare una lunga sfoglia gialla. Rotto un uovo se ne rompe un altro. E un altro ancora… E via ad impastare, girare, stendere e tirare quell’ammasso grumoso dal colore brillante! Le mani del cuoco passarono leste dall’impasto al tenace mattarello, rigido ed efficace nel svolgere quel faticoso mestiere.
Il legno rotolava con rumore sordo sullo strato di sfoglia, ad ogni sospiro di fatica ecco che la pasta si allungava, come un gatto che sbadigliando distende man mano tutte le zampe.
La sfoglia era pronta.
Ruvida al tocco, levigata alla vista. Si stendeva sul piano come un silenzioso e inerme campo di grano, il giallo del tuorlo e il bianco della farina si stavano stringendo in un caldo e morbido abbraccio.
Il cuoco si asciugò la fronte, soddisfatto e sorridente nell’accarezzare ancora una volta quel piccolo prodigio. Che piccole magie accadevano ogni giorno dentro quelle mura, incantesimi dall’aspetto invitante.
Ma ecco che ad un tratto…Oddio l’orologio! Ma è tardissimo! Ci sono ancora tante cose da fare! Via di corsa a recuperare il resto degli ingredienti nascosti dai pensili in legno. I mattoni a vista della cucina trattenevano un sorriso, tutte le mattine la storia era la stessa. Arrivava con calma, si godeva la prima creazione e poi via a correre come un matto su è giù per tutta la cucina, bramoso di creare ancora una volta qualcosa di nuovo e straordinario che sbalordisse i clienti.
Verdure colorate come un appetitoso arcobaleno vennero gettate nel lavandino senza troppi complimenti. L’acqua scorreva sulle bucce trascinando via zolle di terra e polvere bruna, mostrando infine la brillantezza che la natura sapeva donare anche a quei semplici ortaggi. Lo squillante arancione della carota venne messo vicino al verde elegante della zucchina, e pare che la combinazione funzionasse, i due chiacchierarono per tutta la durata della cottura dello sformato , obbligando il formaggio a fargli un po’ di spazio e zittendo quell’arrogante della noce moscata che amava interrompere qualsiasi conversazione per dire la sua.
Il cuoco continuava imperterrito a frullare come un vecchio macinino in qua e in là per il locale, rammentando a sé stesso di fare quello e quest’altro, sorridendo entusiasta a cotture ultimate e sufflè dall’aspetto perfetto.
“Povero me! Povero me! Il semifreddo!” Oh santo cielo il semifreddo all’amaretto! Era ancora nel congelatore! A grandi falcate il cuoco raggiunse la pesante porta in acciaio aprendola in tutta fretta e…ed eccolo lì, tremolante e col faccino triste, il dimenticato semifreddo all’amaretto.
Lo tirò fuori con delicatezza e aria sofferente, era davvero mortificato! Non è mai cosa gentile dimenticare un semifreddo nel congelatore.
Lo fece scivolare dallo stampo al piatto da portata, accompagnandolo con una lieve spinta di incitamento, un po’ come un padre premuroso che insegna per la prima volta ad un bambino quella grande avventura che porta il nome di “bicicletta senza rotelle”. Il semifreddo – ehi, voi tutti, non vi azzardate a chiamarmi budino!- saltò senza problemi sulla ceramica bianca che lo stava aspettando. Tremò un po’, si sistemò allegro e soddisfatto e aspettò di essere abbellito come una vera e propria star.
Arrivò dapprima una collezione di piccoli biscotti a cingergli la vita, poi la grattugiata di cioccolato amaro a solcargli il capo ed infine, la parte migliore, una pioggia di granella di mandorle che gli donava un’aria davvero elegante.
Il cuoco fissava l’orologio ogni cinque minuti.
Gli ospiti stavano per arrivare!
Insomma insomma, che bolliva in quella pentola? Magari le patate? O no, le patate già erano divenute purè pronto ad unirsi all’arrosto! E l’arrosto? Era pronto l’arrosto? Beh, di certo muoversi non si muoveva…Ma che stiamo dicendo! Non si perda tempo! Ci sono ancora i cestini del pane da riempire di focaccia fumante e grissini al rosmarino, la zuppa di fagioli da servire nella scodella di ceramica, le marmellate da unire alla selezione di formaggi!
Con due mani disponibili e cento occhi che controllassero tempi di cottura e vapori sospetti, il cuoco si accingeva a terminare quell’infinita e frenetica preparazione che ogni pasto imponeva.
I cibi aspettavano profumati nei grandi vassoi da portata, spargendo nell’aria una firma odorosa che da anni e anni contrassegnava gli ambienti del ristorante.

Il campanello della porta.
Una risata di un bambino.
I tacchi di una signora.
Il colpo di tosse di un gentiluomo.
Erano arrivati i clienti.

“Su vai vai!” dicevano pasta fresca e fette di torta, era ora di cominciare lo spettacolo.
Lui si tolse il grembiule, si sistemò ancora il cappello e spalancò le porte della cucina per dirigersi nell’androne principale. Era un mezzodì di sabato e il sole splendeva.


“Potete accomodarvi. Benvenuti nel mio ristorante”


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